MUSICA E BIRRA – Ultima Parte

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Sarà ora nostro compito confrontare questa immagine – immagine operante tra noi sebbene cresciuta in origine sul terreno delle tradizioni classiche – con quella sorta nell’ambito del taoismo cinese. Qui il motivo dominante è quello della totale concentrazione dell’artista sul suo lavoro; ma, contrariamente a quanto è accaduto nella tradizione occidentale, questo tema in Cina si è trasformato in un topos biografico. Di alcuni pittori, per esempio, si racconta che fossero vissuti per settimane di seguito sulle montagne e nelle foreste, tra gli animali, e persino nell’acqua, allo scopo d’immergersi completamente nella natura. Mi Fei chiamava una roccia dalla forma strana suo fratello; Fan K’uan (circa 1000 d.C.) viveva sulle montagne e nelle foreste, e spesso trascorreva tutto il giorno in cima a un picco guardandosi attorno, solo per abbeverarsi alla bellezza del paesaggio, e persino quando il suolo era coperto di neve passeggiava avanti e indietro al chiaro di luna fissando lo sguardo davanti a sé, per trovare ispirazione. Kao K’o-ming (decimo secolo d.C.) amava l’oscurità e il silenzio ed era solito vagare per luoghi deserti e trascorrere giorni e giorni a contemplare la bellezza dei picchi e dei boschi, dimentico di sé; quando poi tornava a casa si ritirava in una stanza dove non voleva essere disturbato, per consentire alla sua anima di superare i confini di questo mondo, e in questo stato creava le sue opere.                                                                (Giles, 1905, pp. 86,99,115)

Veniamo inoltre a sapere da questi racconti che la ricerca di solitudine o al contrario di stimoli nella musica o nell’alcool sono condizioni indispensabili all’atto creativo. Di Ku-Chunchih (quinto secolo d.C.), per esempio, si narra che si fosse fatto costruire in una casa una specie di tribuna, che gli serviva da studio, e che, una volta arrampicatosi lassù, si tirasse dietro la scala a pioli e scomparisse per molti giorni dalla vista della moglie e dei figli. E anche Hsin Ch’ang (quindicesimo secolo d.C.) sentiva la sola presenza di qualcuno come un impedimento sufficiente a paralizzare la sua potenza creativa.
Wu Tao-tzù era invece solito ubriacarsi prima di mettersi al lavoro, e così pure il pennello di Li Ch’eng (decimo secolo) cominciava a muoversi solo dopo che egli aveva bevuto abbastanza da essere brillo; mentre di Chih-hui si diceva che “quando era un po’ alticcio teneva le nuvole e le colline nel cavo della mano”. E a sua volta Kuo-Shong, pittore di paesaggi della dinastia T’ang, prima di mettersi al lavoro, doveva eseguire un suo complesso cerimoniale: stendeva un drappo di seta sul pavimento, mesceva i colori e quindi, mentre un gruppo di musicisti suonava per lui, beveva fino ad ubriacarsi; a quel punto iniziava a tracciare i contorni e a stendere i colori, e le vette montuose spuntavano come per incanto.                                                             (Giles, 1905, pp.43,75,84; Fischer, 1912, p.16; da La Leggenda dell’Artista di Ernst Kris & Otto Kurz, p.123,124,125)
Nell’Europa occidentale, tra i celti e i teutoni, nel medioevo e al principio dell’èra moderna, la quantità di alcool usata individualmente con ogni probabilità era anche maggiore di quanto lo sia oggi. Nelle tante occasioni in cui noi beviamo tè, o caffè, o gassose, i nostri antenati si rinfrescavano con gin, brandy e acquavite. Bere regolarmente acqua era una pena imposta ai malfattori, o accettata dai religiosi, nonché da qualche occasionale vegetariano, come gravissima mortificazione. Non bere alcoolici era un’eccentricità abbastanza notevole tanto da suscitare commenti e l’attribuzione di soprannomi più o meno ingiuriosi. Da ciò patronimici come l’italiano Bevilacqua, il francese Boileau e l’inglese Drinkwater.    […] Non è soltanto che “la birra sia più efficace di Milton nel giustificare le vie del Signore verso l’uomo”. La birra è il dio. Tra i celti, Sabazios fu il nome divino dato alla sensazione di essere alienato, insensibile per ubriacatura da birra. Più a Sud, Dioniso fu, tra le altre cose, la soprannaturale oggettivazione degli effetti psicofisici del vino di troppo. Nella mitologia vedica, Indra fu il dio di quella droga non identificabile ora, chiamata soma. Eroe, uccisore di draghi, egli fu la magnifica percezione in cielo della strana e gloriosa diversità sperimentata dall’ubriaco. Tutt’uno con la droga, egli diventa, come Soma-Indra, fonte d’immortalità e mediatore tra l’umano e il divino. […]
Superare i limiti dell’io isolato è una tale liberazione che, anche quando l’auto trascendenza avviene attraverso la nausea nella frenesia e, nel coma, l’esperienza della droga è stata considerata dai primitivi, ed anche dai popoli altamente civilizzati, come intrinsecamente divina. L’estasi attraverso l’intossicazione è ancora parte essenziale della religione di molti popoli africani, sudamericani e polinesiani. Essa fu una volta, come dimostrano chiaramente i documenti sopravvissuti, parte non meno essenziale della religione dei celti, dei teutoni, dei greci, dei popoli del Medio Oriente e dei conquistatori ariani dell’India. […]
Nei tempi moderni la birra e le altre accorciatoie tossiche per l’auto trascendenza non sono più adorate ufficialmente come dèi. La teoria ha subito una trasformazione, ma non la pratica; effettivamente milioni e milioni di uomini e donne civili continuano a rendere omaggio, non allo Spirito liberatore e trasfiguratore, ma all’alcool, all’hashish, all’oppio e ai suoi derivati, ai barbiturici e agli altri supplementi sintetici, all’antichissimo elenco di veleni capaci di provocare l’auto trascendenza. In ogni caso, senza dubbio, ciò che sembra un dio, è in effetti un demone; ciò che sembra una liberazione è in effetti un asservimento. L’auto trascendenza è invariabilmente discendente verso uno stato meno che umano, più basso del personale.
(da I Diavoli di Loudun di Aldous Huxley)

 Concludendo possiamo affermare che anche nel bere ciò che fa la differenza è il buon senso, nonché la consapevolezza dei propri limiti. Fino a prova contraria non esiste una formula predefinita che possa decretare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato per ognuno in senso assoluto, anche se – non di rado – i vari legislatori di turno tentano di limitare la libertà relegandola nell’ambito delle pastoie legislative. In questo senso è possibile affermare che non è tutto bianco e non è tutto nero, ma esistono varie tonalità intermedie. Probabilmente un esempio in termini alchemici nella circostanza potrà essere più utile. Nel Cantico dei Cantici gli occhi dello sposo sono di colore nero; ma la parola greca che la traduce è vicina alle parole che significano “sorridere” e “vino-ebbrezza”. Ancora i colori dell’alchimia, ma questa volta il riferimento è preciso: si sorride mostrando i denti e ci si ubriaca con il vino. Appare lampante: c’è davvero un riferimento ai versi del Cantico dei Cantici, ma a ben guardare anche al libro della Genesi: finito il Diluvio Noè piantò una vigna, bevve del vino e si ubriacò, per questa ragione si scoprì e rimase nudo. Suo figlio Cam lo vide e chiamò i suoi fratelli, i quali lo coprirono. (da Il decifratore, di Rita Morganti, pag. 64) Nessuna meraviglia che gli apostoli sembrassero ubriachi di vini nuovo e che Paolo sembrasse matto a Efesto. Cristo stesso si fece folle, quando si presentò in forma d’uomo che può portare salvezza con la follia della Croce. (Introd. Di Ronald H. Bainton, trad. e note di Luca d’Ascia, da Elogio della Follia, di Erasmo da Rotterdam)
E che dire delle nozze di Cana dove il vino scorreva a fiumi? Da quanto è scritto risultano sei giare ognuna delle quali contenente dai due ai tre barili, quindi in totale dai 12 ai 18 barili di vino. Nella circostanza, tralasciando i relativi significati simbolico/allegorici del vino, viene da chiedersi se quello fosse un normale vino da tavola o il cosiddetto vino d’orzo, cioè la birra. Qualunque sia la risposta, sappiamo che già nella Babilonia di quasi 5000 anni fa venivano consumate una notevole varietà di birre; analogamente sappiamo che la Ninkasi era una birra sumerica che veniva prodotta all’incirca nel 2.800 a.C.  Con altrettanta o maggiore precisione sappiamo che la birra non ha mai ucciso nessuno, ed anzi, come recita una storica pubblicità: Chi beve birra campa cent’anni.
Non è quindi da escludere che chi ne consuma un po’ di più possa vivere anche oltre: probabilmente con maggiore allegria rispetto ad uno qualsiasi degli appartenenti alle fila degli astemi. 

 ©opyright : Antonio Coccia 2021

Redatto Da Giovanni De Ficchy Ed Eros Spada

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